02 giugno 2023

Siccità

Valmontagnana di Fabriano (An)

Lo chiamavano Siccità, mica perché fosse matto, anzi per tutti era un buon ragazzo, benvoluto anche al di fuori dal paese, e un esperto contadino dalle mani d’oro capace di risolvere ogni problema: dal camino che faceva fumo, ai tassi che razziavano gli orti malgrado le recinzioni, alla Panda che non partiva (lassù in montagna dove abitava in pochi possedevano l’auto e quei pochi erano tutti pandisti)… Aveva studiato nella città vicina, in pianura, famosa nel mondo per la produzione di lavatrici. Imparava tutto e subito: un libro intero lo macinava in pochi minuti, le regole grammaticali le assimilava ascoltando gli insegnanti parlare tra loro, dalle immagini ricostruiva i meccanismi di qualsiasi oggetto. Ed è proprio per questa capacità che divenne famoso prima ancora di conseguire la licenza media. Infatti a forza di passare tutti i giorni con il bus davanti a un immenso deposito di lavatrici, pronte per essere spedite, si era accorto, solo guardandolo da lontano, che un modello era stato progettato con un difetto così grave che avrebbe reso il motore inaffidabile. Ne parlò con un insegnante che ci rise sopra, poi con la preside che lo minacciò di chiamare i genitori, e poi con un bidello il cui figlio ingegnere lavorava proprio in quella fabbrica. Prima ridendo, poi sorridendo e alla fine stringendo i denti, tra i vari uffici con gli spazi e le poltrone via via sempre più grandi, i cervelloni riconobbero l’errore. Quel genio adolescente lo avrebbero ringraziato con una borsa di studio garantendogli un incarico di prestigio nell’azienda finiti gli studi, ma lui rifiutò. Rispose che il suo posto era a Valmontagnana e che lassù aveva tutto ciò che desiderava  e che solo la siccità gli metteva paura ma che in montagna quel rischio non c’era. Quando quel rifiuto arrivò alle orecchie dei compaesani, l’incredulità lo stupore e un pizzico d'invidia si fusero in una etichetta come un marchio impresso a grandi lettere sulla fronte: SICCITÀ. Ed è così che lo chiamarono tutti, perfino la postina, il messo comunale e il prete che saliva una volta a settimana per dire messa nel paese. Si ritrovò settantenne che aveva ancora molteplici cose da fare, da inventare, da modificare, non solo per sé ma anche per rendere la vita più leggera ai pochi anziani più vecchi di lui rimasti nel paese. Un solo cruccio lo tormentava oramai sempre più spesso: erano diventate sempre meno frequenti le corse sotto la pioggia, sia di giorno che di notte a volte solo con gli slip addosso, i bagni dentro le pozze del terreno e i balli al “ritmo della primavera e della neve sciolta” sotto le infinite cascatelle d’acqua fresca provenienti dalle cime più alte. Negli ultimi anni si passava dall’estate all’estate successiva senza vedere le altre stagioni. Siccità l’aveva vista in anticipo la siccità e si era impegnato mese dopo mese a far scorrere la poca acqua e a conservarla in ogni singola edificio, in ogni cisterna di fortuna sistemata tra i campi e nei boschi sperando nel ritorno delle stagioni normali. Oramai poteva fare il bagno solo davanti casa nella vasca trasformata in piscina mentre la pioggia non era quella che lo ticchettava mentre ballava sotto il temporale ma quella incanalata nelle grondaie e che poi si rovesciava sul suo corpo rannicchiato, compresso come nell’uovo. Quella compressione lo stava però schiacciando e lui intuiva cosa gli sarebbe potuto succedere. Una mattina, Gigio, il vecchio del paese, lo vide caricare tutti suoi marchingegni su un furgone, gli corse incontro chiedendogli cosa stesse facendo e lui gli rispose: “vado in un posto dove la pioggia non soffre”. Di Siccità resta il mistero di quelle sue ultime parole.



09 dicembre 2021

Il faggio e il bambino delle rondini

 

Val Casies-Gsieser Tal, Messner Hütte
 

Era il faggio più vecchio più grande più alto, visibile da tutta la Val Casies anche da Santa Magdalena, il paese di Peter. Dalle piccole finestre con i vetri sottili e traballanti della sua fredda e buia casa, la sagoma del faggio cresciuto in una radura sul fianco della montagna sembrava un faro: l'alternanza dei suoi colori raccontava il susseguirsi delle stagioni oppure l'alba o il tramonto mentre la nebbia o le nuvole che lo avvolgevano, a volte solo in parte, anticipavano l'arrivo del bello o del cattivo tempo. In inverno, il suo profilo spoglio risaltava come un disegno tratteggiato con un carboncino sul bianco intenso della neve.

La prima volta che suo padre lo portò in quella radura dove pascolava le loro unica mucca Peter aveva sì e no otto anni. Salirono insieme tutti i giorni sia con il sole che con la pioggia finché entrambi furono certi che Peter poteva farcela da solo ad andare e tornare, a difendersi da un temporale improvviso e a governare la loro unica fonte di latte, burro e formaggio. Fu così che il bambino e il faggio divennero inseparabili, dalla primavera all'autunno per tre magnifici anni di seguito.

Peter non si stancava mai di sdraiarsi ai piedi del tronco per guardare dal basso la simmetria dei rami, il sole o la pioggia rimbalzare sulle foglie, l'imprevedibile continuo via vai degli uccelli, le rapide giravolte degli scoiattoli sul tronco. A volte chiudeva gli occhi per riconoscere e visualizzare anche il più tenue suono proveniente dalla chioma. Spesso si arrampicava fin quasi sulla cima, che da lassù immaginava di dominare il mondo con gli stessi occhi e le stesse ali della poiana che al tramonto si dondolava sui rami più alti curvati dal suo peso.

Pian piano cominciò anche a raccontare di sé, a voce alta sperando che in qualche maniera il faggio gli rispondesse: beh nei sogni era accaduto diverse volte, non poteva succedere davvero? Forse serviva più tempo per sintonizzarsi entrambi sulla stessa lunghezza d'onda, magari l'anno dopo, chissà. Per Peter quell'albero era diventato il suo riferimento, la certezza nel cambiamento che di lì a breve avrebbe fatto di lui un uomo.

Ma Peter non arrivò la primavera successiva. Le condizioni difficili della famiglia lo costrinsero a partire per la Baviera, a piedi, dove avrebbe lavorato come garzone: vitto e alloggio come unico compenso. Stessa sorte sarebbe toccata a migliaia di bambini e bambine delle zone povere del Sud Tirolo; venivano chiamati i "bambini delle rondini" perché partivano in primavera e tornavano alle loro case in autunno.

Il vecchio faggio non poteva sapere nulla di tutto questo. Erano tornate sia le rondini che la mucca sorvegliata però da un fratello di Peter, di lui neanche l'ombra. La sensazione di malessere cominciò a mescolarsi nella sua linfa e ad attraversare ogni singola cellula del suo corpo, dai rami più alti e via via fino alle radici e da queste si diffuse alle radici degli altri individui con cui era connesso in una fitta e aggrovigliata trama sotterranea.

Di connessione in connessione tutti gli abeti, i faggi, i larici e più su anche le stelle alpine e i muschi della catena alpina sapevano del dolore del vecchio faggio ma nessuno di essi riusciva a immettere nella linfa comune notizie di Peter, belle o brutte che fossero. Passarono i giorni e quando arrivò l'estate il vecchio si convinse che le sue radici oramai non fossero più in grado di comunicare come un volta. Cominciò così a abbassare i suoi rami fino al prato e poi a spingerli sottoterra e a farli avvolgere nelle sue radici per dar loro manforte, come se i suoi rami fossero le calde e decise mani di Peter capaci con una carezza sulla sua corteccia di trasmettergli i suoi desideri e le sue emozioni. L'inverno fu duro quell'anno, quando in primavera Peter tornò nella radura il vecchio faggio era già secco.

https://www.garzanti.it/i-bambini-di-svevia-romina-casagrande-racconta-la-storia-dei-bambini-delle-rondini-1287702/

24 giugno 2021

Il caffè nell'ascensore



"Desiderate qualcosa da bere?". Era un sabato mattina quando quella timida voce rimbalzò all'interno dell'ascensore come un boato creando un clima di sorpresa e di timore tra gli astanti. Soltanto una giovane donna disse di sì, forse intuendo un disagio se non una sofferenza dietro quella richiesta.

Subito dopo quel signore dall'età indefinita, vestito con jeans e polo bianca, mosse velocemente le braccia come se stesse davvero azionando una macchina da caffè espresso, poi sorrise e allungando la mano destra verso di lei disse "stia attenta ché la tazza è bollente ma senta che profumo… offro io". Il ghiaccio all’interno della cabina si sciolse all’improvviso e un gruppo di tre ragazzi prima ancora di uscire dalla porta che nel frattempo si apriva prenotarono il caffè invisibile per il ritorno.

Ogni mercoledì e sabato, che poi erano i giorni in cui si svolgeva il mercato settimanale, il barista era il primo passeggero dell'ascensore e ci restava fino alle 13 in punto. La notizia di ciò che stava accadendo si propagò e giorno dopo giorno sempre più persone utilizzarono quel mezzo solo per chiedere un caffè, anzi caffè di tutti i tipi, addirittura da asporto per i ritardatari al lavoro. E man mano che le richieste aumentavano, il barista era costretto a muovere sempre più velocemente le braccia e le mani nei pochi secondi nei quali l'ascensore scendeva nel parcheggio sotterraneo oppure saliva al piano terra o nella parte più alta dell'edificio, lo storico Mercato delle Erbe in pieno centro.

La cabina divenne un luogo di ritrovo per la città. Era facile incontrare chi portava un quotidiano da leggere, chi delle sedie pieghevoli per stare comodi, e chi voleva pareri su una propria canzone o poesia o dipinto. Si discuteva di tutto, anche di spostamenti di fontane e di obelischi . Si cantava pure. Soltanto il barista non parlava mai: sorrideva con gli occhi e salutava con un mezzo inchino, ma quando i suoi occhi incrociavano quelli di un anziano contadino in molti giurarono di aver visto il suo sguardo accendersi come se i due stessero parlando in silenzio. Nella cabina, a volte gli argomenti erano così coinvolgenti che all’apertura delle porte nessuno tra gli occupanti sarebbe uscito se non fosse stato strattonato e tirato fuori da chi aspettava di entrare.

Ma le persone in attesa diventavano sempre più numerose e per entrare nell'ascensore passavano anche delle ore. Bastava un niente per far esplodere liti anche violente. Per ristabilire la normalità e la sicurezza il sindaco dovette bloccare il servizio. Nell'arco di pochi giorni scomparirono sia i curiosi che gli affezionati del caffè. Il barista non si fece più vedere e l'ascensore poté quindi ripartire con il solito tran tran.

Non si seppe mai con certezza chi fosse il barista anche se una voce circolata tra i banchi del mercato contadino mormorava che fosse il gestore del vecchio chiosco demolito anni prima per far posto proprio all’ascensore. Chiosco bar le cui due pareti bianche e la tazzina dipinta sopra l'allora esistente macchina da caffè esistono ancora anche se nascosti in parte dall'ascensore.

Ma il fatto che fa ancora discutere, tra l'incredulità generale, è che tutte le persone che accettarono quelle tazzine fumanti ricordano i profumi e i sapori di quei caffe come i più buoni mai sentiti prima. 

Quinto, il veterano delle Mercato delle Erbe di Jesi


Jesi, Mercato delle Erbe

08 marzo 2021

Dora: dono per Pretare



Dora nella sua casa di Pretare, affacciata sopra al bar 
La prima volta che entrammo, io e due miei amici, nella latteria di Dora a Pretare non avevo ancora venti anni. Eravamo scesi dal Monte Vettore, dopo tre giorni di pernottamento nel rifugio Zilioli, ovviamente senza mai lavarci, con gli scarponi irriconoscibili per quanto erano impastati di terra e sassi. I personaggi del film Brutti sporchi e cattivi dovevano sembrare angeli rispetto a noi. Il tempo di fare non più di due passi nel negozio e Dora ci fulminò con lo sguardo, poi ci chiese di uscire per togliere la terra almeno dalle suole: “ non lo dico per me, io pulisco tutto in pochi attimi con lo straccio, LO DICO PER VOI!”. Uscimmo di corsa, certamente facemmo un buon lavoro perché ricordo il nostro ingresso trionfale poco dopo nel negozio. 

Dopo esserci rifocillati partimmo per il viaggio di ritorno, lungo ed estenuante perché non avendo l’auto si svolgeva in parte a piedi e in autostop, con la “corriera” fino ad Ascoli Piceno e poi con tre cambi di treno fino a Jesi. Solo quando trovammo posto a sedere in una carrozza, non ricordo chi disse tra sé e sé “ ma cosa voleva dirci con LO DICO PER VOI?”. Cavolo, scoprimmo in quel momento che quella frase si era conficcata dentro di noi, nessuno escluso, ma il suo significato non era ancora chiaro. Ognuno disse la sua, ci volle tempo per concordare che sì per Dora l’attenzione a come si è non è soltanto forma ma rispetto degli altri e di se stessi. Restammo stupiti per la forza di quel messaggio. Non è che fosse difficile scoprirlo ma eravamo giovani e forse anche increduli per aver ricevuto una lezione di quel tipo in una latteria per noi ai confini del "mondo".

La latteria-bar  “Vettore”  restò per decenni  il nostro punto di ritrovo ogni qualvolta si passava di lì e il caffè fatto da Dora, a volte, era la scusa per rivederla dietro al bancone, tirato a lucido, sempre gentile, attenta alle diverse nostre richieste, con i capelli ordinatissimi e un sorriso ogni volta sempre più contagioso.

Il terremoto del 2016 ha distrutto Pretare e il palazzo cinquecentesco a tre piani dove Dora abitava e lavorava, lì nel centro del paese, dove la strada prima di salire per Forca di Presta piega a sinistra. Solo nel 2018 ho avuto modo di tornarci per chiedere di lei. La prima  persona che ho incontrato mi ha sorriso dicendo che Dora stava bene e che sarebbe stata felice di salutare un suo ex cliente. Così  mi ha accompagnato nella sua nuova casa, nel villaggio SAE  costruito per chi aveva scelto di non partire da Pretare. Lei non si ricordava di me (non ci vedevamo da anni)   mi ha però fatto entrare ugualmente, ha preparato e offerto il caffè con la stessa cura e le stesse attenzioni di sempre e abbiamo parlato di…futuro: già di futuro  perché "solo in questo modo Pretare poteva rinascere". Ci siamo salutati con la speranza di rivederci, magari con gli amici e le rispettive famiglie, anche perché, pensavo, quella sarebbe stata l'occasione per  raccontarle come quel suo "fulmine" avesse fatto centro. 

Alcuni giorni fa Alessandro Trenta, di Pretare, mi ha scritto che a 97 anni di età, “Dora è l’anima di quello che è rimasto di Pretare ed è un forte collante per tutti”.
D'altronde, aggiungo, Dora significa “dono”: dono per Pretare, e non solo.

A presto, Dora.

(A parte la foto del villaggio SAE, che ho scattato nel gennaio 2018, tutte le altre le ho ricevute da Alessandro Trenta che ringrazio.) 

"Caffè latteria Vettore" aperto e gestito sempre da Dora


Tempi nuovi per il Bar Vettore con una recente...rivisitazione 


Dora con la sua macchina del caffè salvata dalla distruzione


Il villaggio SAE di Pretare (30.01.2018)



23 dicembre 2020

Trittico degli Ottoni: Natività - Matelica, Museo Piersanti

Museo
Natività, Luca di Paolo e Lorenzo d'Alessandro

Questa Natività dipinta nel 1475 è una delle innumerevoli opere d'arte disseminate in tutto il territorio marchigiano spesso dimenticate o sconosciute, il perché oramai lo sappiamo tutti. Non fa eccezione il museo Piersanti di Matelica che è un concentrato di testimonianze artistiche concepite e prodotte per questo territorio. Una perla, insomma. Eppure, anche se abito poco distante, c'è voluto un appuntamento canoro lo scorso fine anno per avere l'opportunità di visitarlo. Giusto in tempo, tra l'altro, perché il giorno dopo sarebbe stato chiuso per consentire la messa in sicurezza dell'edificio parzialmente lesionato dal terremoto. E' tuttora in lockdown, come noi. 
Per saperne di più ecco i link per il Museo e per il Trittico.

Auguri, cari amici, per un sereno Natale, e che anche la Bellezza ci sostenga in questi difficili momenti.






20 luglio 2020

Il Giglio Martagone e la Croda Rossa di Sesto

Sesto, Prati della Croda Rossa  -   Giglio Martagone (Lilium Martagon)

Ci sembrava impossibile che il Giglio Martagone (Lilium Martagon) potesse sopravvivere a 2000 metri di altezza: i suoi petali ripiegati, gli stami all'ingiù e l'esile stelo che lo faceva ondeggiare al minimo alito di vento davano l'impressione di un fiore pronto a rompersi per un nonnulla. 

Eppure quella fragile colorata bellezza, cresciuta in un prato esposto al gelo del nord, sarebbe morta per poi rinascere a primavera sempre uguale a se stessa, anno dopo anno. Al contrario delle cime dolomitiche alle nostre spalle che, dopo qualche migliaio o milione di anni (un'inezia per la Terra), frana dopo frana, sarebbero scomparse riducendosi a un mucchietto di sassi. 

È a questo che pensavo dopo aver lasciato quel prato per salire con G. più su, sugli spettacolari, meravigliosi, divertenti e aerei Costoni della Croda Rossa di Sesto più fragili di un fiore.

Attenzione! Questo giglio è protetto perciò non si può né raccogliere né calpestare ma in compenso si lascia fotografare in qualsiasi momento.

Prati alti della Croda Rossa di Sesto 

Dai Costoni della Croda Rossa di Sesto: Val Sassovecchio, Crode Fiscaline, Paterno, rifugio Locatelli alle Tre Cime


25 aprile 2020

24 Aprile 1943 a S. Domenico Loricato di Frontale di Apiro

IL Monte San Vicino da S.Domenico di Frontale

Il 25 aprile di alcuni anni fa, seguendo un sentiero dritto per dritto da Frontale di Apiro ,scoprimmo per caso tra le propaggini del Monte San Vicino, il luogo in prossimità del quale sorgeva l'antico monastero dedicato alla Santissima Trinità. Qui, nel 1060 moriva san Domenico Loricato, monaco camaldolese amico di san Pier Damiani, e nel 1302 il suo corpo fu traslato nella nuova vicina chiesa a lui dedicata. 
Negli anni successivi quella stessa chiesa e il contiguo edificio rurale divennero proprietà privata, l'intero complesso venne orribilmente rialzato e poi abbandonato e depredato. Oggi è diventato una specie di stazzo per animali.
Il prezioso messale di S.Domenico in pergamena del XI secolo rubato nel '26 dalla chiesa di Frontale e la cui proprietà è oggi contestata dallo Stato Italiano alla Morgan Library e Museum di New York proveniva da qui "in sua Vicini Montis eremo".

San Domencico di Frontale di Apiro


La ex chiesa di San Domenico Loricato


Frontale, ex chiesa di san Domenico Loricato


Sempre qui, negli anni anni Quaranta, vivevano i due cugini Pelucchini quando il 24 aprile 1943 durante un rastrellamento nazista vennero uccisi perché accusati di aver dato rifugio a dei partigiani. Una storia fatta di dolore per i due giustiziati e per le loro famiglie costrette poi ad una vita sempre più difficile  e travagliata in un ambiente  dove anche oggi, malgrado la natura sia di una bellezza che ti emoziona, per cavartela devi tirar fuori dalle braccia e dal cuore ogni grammo di energia e di volontà.

Frontale, S.Domenico: in ricordo dei cugini Pelucchini
Quel giorno, sempre lungo il sentiero,  incontrammo il figlio ottantenne di non ricordo quale dei due Pelucchini che, malgrado abitasse a Roma, ritornava tutti gli anni  a S. Domenico per ricordare suo padre e suo zio. Fu lui a raccontarci questa storia e quando gli chiesi che cosa ne pensasse di quel periodo, dei partigiani e dei fascisti e nazisti lui mi rispose di non avere rancore per nessuno perché "è stata la guerra a rendere gli uomini disumani" ma che se la sua testimonianza fosse servita per non far succedere di nuovo quelle tragedie beh! allora lui ci sarebbe sempre stato, per qualsiasi manifestazione a partire da quella del 25 Aprile. 


01 aprile 2020

La cripta di Sant'Ugo a Montegranaro

Cripta di Sant'Ugo , crocefisso ligneo del '500 
L’ingresso alla Cripta di Sant’Ugo si affaccia sulla strada che porta al centro di Montegranaro, in salita e in prossimità di una curva. Se non lo sai o vai di fretta fai fatica a vederla, malgrado il cartello turistico che la segnala. Il portone d’ingresso è piccolo, può far entrare non più di una persona alla volta, sembra più adatto a un’abitazione privata o a un locale annesso a un convento.

Ma appena apri quella porta e oltrepassi il gradino la sorpresa è immediata: davanti a te si allunga una sola navata ma con le pareti e la volta a botte affrescate da una serie di dipinti che originariamente coloravano ogni spazio e ti senti scaraventato prima nel Rinascimento  e pochi metri dopo nel Medioevo come in un film di fantascienza.

In effetti  ma mano che la guida, Luca Craia, ti porta dentro alle storie della chiesa, nella mente s’intrecciano tanti fotogrammi in successione: la costruzione dell’edificio intorno al 900; le diverse modifiche strutturali fino  a che un’altra chiesa sarà costruita sopra ad essa facendola diventare una cripta; i cicli di affreschi , evocativi di altrettante trasformazioni nella storia dell'arte figurativa, iniziati nel 1229 e terminati nel XVI (sembra di vederlo il pittore anonimo, nell’Adorazione dei Magi, alle prese con i cammelli, mai visti in vita sua, dipingerli “per sentito dire"). Poi l’abbandono, l’incuria, l’umidità che devasta gran parte degli affreschi,  la rinascita voluta da tutta la comunità cittadina, il recupero di un crocefisso ligneo del '500 depositato in altri locali, il restauro e infine l’associazione Arkèo di Montegranaro che si incarica gratuitamente di tenere aperta la cripta e fare da guida ai visitatori che ne usciranno stupefatti, come noi.

Con Sant’Ugo si ripete la storia tutta italiana e marchigiana soprattutto, della bellezza sparsa anche nelle più piccole  località e nei luoghi più impensati in un territorio la cui bellezza compete con l’arte e viceversa.

Cripta di sant'Ugo, l'ingresso

Cripta di Sant'Ugo

Cripta Sant'Ugo, Battesimo di Cristo e Adorazione dei Magi, 1299

Cripta Sant'Ugo, Adorazione dei Magi,  1299

Cripta Sant'Ugo, Madonna in trono,  'XIV secolo

Cripta Sant'Ugo, Albero della vita e Crocefissione, XIV secolo

Cripta Sant'Ugo, Albero della vita e Crocefissione, dettaglio 

Cripta Sant'Ugo, martirio di santa Barbara, 'XVsecolo

Le firme dei visitatori...incisori
Abbiamo visitato Sant’Ugo esattamente un anno fa, il mio primo giorno di pensione. È stata una scelta pianificata a tavolino il giorno prima perché a un giorno speciale volevo intrecciare un luogo speciale, e Luca Craia, malgrado fosse un giorno di chiusura, si è prestato a farci da cicerone in un primo caldo pomeriggio di aprile prima di recarsi al lavoro. Grazie di nuovo, Luca.





17 marzo 2020

Il Monte San Vicino



Gli Antiappennini e il Monte San Vicino visti dalla Croazia

Dalla Croazia, l'incredibile sguardo di Aleksandar Gospic (foto sopra) attraversa l'Adriatico e punta dritto verso l'antiappennino marchigiano dove, al centro, spunta un' inconfondibile sagoma trapezoidale. È il Monte San Vicino che, in questo tratto della catena montuosa, pur essendo di modesta altezza, all'incirca 1.500mt., accanto a sé non ha "rivali" né di lato ma neanche davanti, verso est e il mare. Ecco perché quel profilo è un marchio, anzi una specie di "faro" per chi abita nelle province di Ancona e Macerata.

È un "faro" che però cambia forma man mano che ci si sposta attraverso i punti cardinali. Andiamo a scoprirlo viaggiando in senso antiorario partendo da Apiro e tornando a Poggio S. Vicino: i due paesi a cui questa montagna fa quasi da tetto.
Vedremo il profilo addolcirsi per poi diventare quasi un cono a Nord. A Esanatoglia, a Est, ritorna trapezio ma con la cima stavolta, ovviamente, al contrario. Scendendo a sud diventa un vulcano e via via di nuovo trapezio.

Ma allora se volessimo raccontare questo monte quale profilo dovremmo scegliere se basta spostarsi di pochi chilometri per vederlo mutare. E chi avrebbe l'autorità per farlo? A nome di chi e di quale punto di vista...cardinale?

Sant'Agostino (354-430) chiedeva di "accettare le contraddizioni per amore della Verità". 
Di sicuro intendeva contraddizioni di più alto spessore però una risposta ce l'ha fornita e non solo per questa microscopica questione.

Dalle Piane di Apiro (MC)

Dalle parti di Ostra Vetere (AN)

Fabriano, dal Valico di Fossato  (confine Marche Umbria)

Dagli uffici del comune di Esanatoglia (MC) : qui la cima è rivolta a sinistra

Da Offida (AP) sotto il S.Vicino, Montalto Marche (?)

Da Urbisaglia (MC)

Da Castel Sant'Angelo di Cingoli (MC): in alto a sx  El Cito

Poggio San Vicino (MC)

Sulla cima del Monte San Vicino

Grazie a Bruna Stefanini e ad Aleksandar Gospic per le bellissime foto.

16 gennaio 2020

Anthropocene

Già dalle prime gigantografie della mostra multimediale, le immagini dei disastri ambientali ti arrivano dirette allo stomaco, come un pugno. Di sicuro era proprio questo l'intento degli autori di Anthropocene, l'evento che si è concluso pochi giorni fa al MAST di Bologna. 

Le gigantografie sono nitidissime, a volte si tratta di centinaia di scatti uniti in una singola foto da un hardware specifico, ti sovrastano, quasi ti cadono addosso, o meglio, ti fanno entrare dentro all'immagine, fisicamente. La scelta, poi, di indicare in ognuna delle didascalie soltanto la città e la nazione, escludendo quindi ogni riferimento alla singola impresa o multinazionale a cui affibbiare la colpa e la responsabilità di ciò che vedi, ti spiazza e man mano che ti  addentri nel percorso espositivo ti rendi conto che i materiali estratti servono per far funzionare il telefonino che hai in tasca, i fertilizzanti per pagare di meno il cibo che acquisti, la plastica per contenere l'acqua messa nello zaino... 

La responsabilità, quindi, coinvolge anche te e se non ne prendi coscienza non ci saranno vie d'uscita. Il senso di colpa ti assale insieme al timore di non poter più fermare quella macchina infernale e di ripristinare ciò che è stato modificato o distrutto. Ansia. Allora cerchi di condividere questa consapevolezza e le sensazioni del momento con uno sguardo, una parola o semplicemente stando vicino a chi conosci.

Ed è quello che ho cercato di raccontare con queste foto nell'ultima ora dell'ultimo giorno di apertura dell'evento.

Lagos, Nigeria -  Foto di Edward Burtynsky

Lagos, Nigeria - Mushin Market

Carrara, cava di marmo. Foto di Edward Burtynsky

Canada, Vancouver, abbattimento alberi con dinamite - Installazione di Jennifer Baichewal e Nicholas de Pencier

Cina, barriere frangiflutti  -   Foto di Edward Burtynsky




Bologna,  MAST  - Anthropocene 


25 dicembre 2019

La Natività di Giampietro da Spilimbergo a Tauriano

Tauriano, Natività di Giampietro da Spilimbergo

La Natività fa parte di un ciclo di affreschi, purtroppo deteriorati dal tempo,  dedicato alle storie di san Nicolò vescovo,  dipinti nel 1502 da Giampietro da Spilimbergo a Tauriano (UD) nell'abside della chiesa dedicata al santo.  Malgrado le ricche vesti cinquecentesche di  Giuseppe e Maria è una delle natività più semplici ed essenziali che abbia mai visto dove sono stati raffigurati  in un rudere (stalla?) solamente Gesù bambino riscaldato dal bue e dall'asinello, i suoi genitori e san Nicolò in preghiera, un paesaggio friulano e  lo stesso santo in cima a una collina apparso in uno dei suoi miracoli. Tutto qui. Il senso del mistero di questa nascita è racchiuso in un piccolo spazio con i soli "attori" principali della narrazione. 

Auguro anche a voi, amici di Web, un Natale così, semplice ed essenziale.

16 gennaio 2019

La Cracking Art ad Ascoli Piceno

Ascoli Piceno, chiostro San Francesco
Ascoli Piceno malgrado la pioggia la neve e il vento gelido, che sbuffava tra le rue (vicoli) come se intendesse trasformaci lì per lì in due statue di ghiaccio, era  sempre stupenda. Camminavamo con il cappuccio in testa e lo sguardo rivolto in basso per evitare le pozzanghere ma per poco non ci scontravamo con un elefante:  naso contro  pancia del pachiderma fermo al centro del marciapiede. È stato un totem informativo sulla Cracking Art (qui), poco distante, a trasformare la sorpresa nel desiderio di ri-scoprire la città nel poco tempo che ci restava.

Sembrava che da un circo fossero fuggiti coccodrilli, elefanti, lumache giganti, rane, suricati, orsi, lupi... Tutto il centro storico ne era invaso. Grandi e piccole installazioni di plastica dai colori accesi si contrapponevano al travertino, colmavano gli spazi delle piazze,  i vuoti e i profili dei palazzi: la plastica contro la pietra, le forme curve degli esseri viventi contro le geometrie architettoniche, i colori artificiali contro quelli naturali. Il confine tra natura e cultura e tra passato e presente era davanti a noi, nitidissimo, con tutte le sue contraddizioni e risvolti etici e ambientali. Ne usciva una città a quattro dimensioni, completamente rinnovata e coinvolgente. 

Per chi vorrà vederla, e ve la consiglio, l'installazione proseguirà fino al 17 febbraio.

Ascoli Piceno, Corso Mazzini - Palazzo Cassa di Risparmio


Ascoli Piceno, Piazza del Popolo

Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani